La riunione di politica monetaria della Federal Reserve degli Stati Uniti d’America ha prodotto l’ennesimo rialzo del costo del denaro, arrivato al 2.25% dopo un ritocco di un quarto di punto. La notizia era ampiamente scontata dal mercato, che, infatti, ha dapprima reagito vendendo il dollaro (USD), seguendo il tipico pattern “buy the rumor, sell the news”. E infatti la moneta unica (EUR) aveva quasi sfondato 1.18, per poi ripiegare. Da allora, però, il biglietto verde ha continuato a rafforzarsi contro tutte le altre principali valute e il cross contro l’euro è sceso fino sotto 1.17.
I motivi per cui questo è accaduto sono diversi. Prima di tutto il tono di Powell è sembrato meno accomodante in termini di politica monetaria e l’istituto centrale ha rivisto, di nuovo, al rialzo le stime di crescita per la prima economia mondiale sia per il 2018 che per il 2019. Rispettivamente al 3.1% dal 2.8% precedente e al 2.5% dal 2.4%.
L’inflazione è vista vicina al 2%, in piena linea col mandato. Inoltre è stato rivisto al rialzo il percorso sui possibili ritocchi futuri, il cosiddetto “dot plot”. Ora i membri del board della FED si aspettano un ulteriore rialzo prima della fine dell’anno con quasi assoluta certezza, essendo passata tale stima da 12 membri a 16.
Questo ulteriore rialzo avverrà a dicembre prossimo. L’ultimo motivo è dovuto, infine, all’abbandono del termine “accomodante” nel comunicato ufficiale rilasciato dopo la riunione del board, che era rimasto sempre presente sin dai tempi della grande crisi finanziaria e del Quantitative Easing.
Per quanto riguarda l’euro ci sono state notizie sia positive che negative, che nel complesso non gli hanno permesso di tenere il passo col biglietto verde. Di positivo c’è sicuramente un ulteriore rialzo dell’inflazione in Germania, che è arrivata al 2.3% annuale dal 2% di settembre per via dei prezzi energetici e dei servizi. Di negativo i dati sugli aggregati monetari M3, scesi dal 4% al 3.5%, che indicano una diminuzione dell’offerta di moneta circolante.
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